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Uscire dal declino: ripartire REDDITI e LAVORO

di Flavio Pellis

La lezione fondamentale che si ricava dell’esperienza della crisi e dei suoi effetti, è che non è possibile affidarsi a mercati incontrollati ed autoregolamentati, ma serve una risposta economica più razionale e lungimirante (vedi il recente Documento del Pontificio Consiglio sul sistema finanziario); tralasciando per brevità  approfondimenti su Eurolandia (tra cui la possibilità di unire austerità e crescita, che serve solo a giustificare la logica ferrea del rigore, ma la pessima idea dell'austerità in piena depressione genera recessione e disgregazione), restiamo da noi ed alla questione centrale: cioè per uscire dal declino serve più crescita e più occupazione.

 

Tutti parlano (o blaterano) di crescita, perché servirebbe all’Italia, ad incrementare l’occupazione, a migliorare i conti pubblici ed il rapporto deficit/PIL, ad aumentare i consumi, ad accrescere la solidità delle imprese, etc., ma niente si dice circa quali siano le vere leve per la crescita; salvo discutere di regole, di strumenti, di aggiustamenti (tutti i provvedimenti del Governo Monti, al di là del giudizio di merito, se sono efficaci oppure boiate), che possono aiutare, ma restano strumenti; da soli non bastano.

Si cresce soprattutto se aumenta la domanda interna, che rappresenta il 70% del PIL (ci sarebbe molto da dire sul PIL come misuratore del benessere, vedi la Commission Fitoussi, il rapporto Giovannini-Olini, cioè Istat e Cnel); ma la domanda interna è fortemente influenzata dalle capacità di spesa dei redditi da lavoro e da pensione (che rappresentano il 91% del gettito Irpef), ma anche dalla platea della domanda, quindi maggior occupazione, soprattutto stabile e non precaria (a proposito: smettiamola di usare l’indice di disoccupazione, che è un indicatore falsato, perchè non tiene conto degli scoraggiati, dei NEET, etc., bensì usiamo un indicatore più corretto, cioè il tasso di occupazione – rapporto occupati/popolazione 14÷65 anni – e scopriamo che da noi è al 56%, contro il 71% della Germania, il 69% della Gran Bretagna, il 67% della Francia, una media UE del 65%; così come la precarietà che non si risolverà mai, fintanto che i “contratti flessibili” costeranno molto meno del lavoro stabile, mentre andrebbe invertita la convenienza economica).

Quindi, non si può parlare di crescita se non si affronta con decisione la questione delle DISEGUAGLIANZE: nella DISTRIBUZIONE dei REDDITI e nella RAREFAZIONE del LAVORO STABILE; la cui urgenza deriva dal fatto che un eccesso di diseguaglianze prolungato nel tempo crea disgregazione sociale.

Nella società della conoscenza, una maggiore eguaglianza non è soltanto un fattore decisivo della coesione sociale e di tenuta del tessuto democratico, ma assume valore economico, perché rafforza la domanda interna.

Questo è l'unico modo per ricreare le condizioni della crescita (vedi i 2 Nobel: Krugman, Stiglitz), come è dimostrato dai 6 paesi europei a minor diseguaglianza: i 4 paesi scandinavi, Germania, Olanda; cioè quelli a più alto Pil procapite e che hanno retto meglio degli altri nella crisi; paesi più uguali, paesi più ricchi.

Se poi osserviamo che ai primi posti della classifica mondiale per Investimenti Diretti Esteri c’è la Svezia, con quasi il 30%, che notoriamente ha un Welfare tra i più ricchi del mondo e le minori diseguaglianze (il rapporto PIL/abitante è tra i più alti), si capisce quali sono le direttrici su cui si muove il capitale nel mondo: nei paesi emergenti diventa decisivo il parametro costo del lavoro per produzioni a basso contenuto di tecnologie facilmente replicabili, mentre nei paesi avanzati, sono determinanti i fattori di conoscenza e di elevata specializzazione della forza lavoro.

 

Perciò indico QUATTRO leve per la crescita, che ritengo le principali;  2 prioritarie e 2 complementari:

 

1.   Riequilibrio delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi; piuttosto che politiche di incrementi salariali (che avrebbero controindicazioni sui costi in una fase recessiva), privilegiare politiche fiscali redistributive a vantaggio dei redditi da lavoro e da pensione, utilizzando a tal fine i proventi derivanti dal recupero delle risorse occulte (evasione, corruzione, etc.), restituendo in tal modo potere d’acquisto a chi l’ha perso.

 

2.   Politiche attive e di ripartizione del lavoro; il punto non è lavorare di più, bensì lavorare meglio ed in modo produttivo, persino con orari più corti (anche per creare più occupazione); l’Ocse certifica che i paesi con maggiore produttività sono anche quelli con orari annui più corti (e sono gli stessi con il più alto tasso di occupazione), mentre quelli con orari più lunghi sono quelli a più bassa produttività (oltre che a più basso tasso di occupazione, tra cui l’Italia). Quindi prima ancora del Kurzarbeit tedesco o della Annualisation des orairesfrancese (perchè impatterebbero entrambi - i Contratti di Solidarietà tedeschi e le 35 ore francesi - con la difficile e complicata questione: riduzione orario con quanta parità di salario), privilegiare l’allargamento del part-time volontario e non precario (sull’esempio olandese che ha il più alto tasso di occupazione al mondo: 75%).

 

Inoltre ridestinare gli incentivi verso destinazioni mirate che determinino più occupazione stabile, come i servizi che hanno alta incidenza occupazionale e sono composti per l’80% di laureati e diplomati.

 

3.   Politiche industriali e di sostegno all’innovazione e ricerca; riprendere una seria politica industriale (scomparsa da oltre un decennio) verso settori produttivi ad alta crescita, nell’innovazione dei processi per aumentare la competitività, strutture formative e di ricerca adeguate, non solo per mantenere i cervelli in Italia, ma anche per richiamare più laureati e manodopera altamente qualificata, che saranno sempre più decisivi nella competizione fondata sulla conoscenza, come hanno fatto i nostri competitors europei: Scandinavia, Germania, Francia, etc.  I nostri competitori sono loro, non sono Cina ed India.

 

4.   Incrementare la produttività con accordi di “partecipazione”; cioè diffondere un sistema contrattuale di aumenti di produttività legata al salario, in grado di coniugare una ritrovata “responsabilità sociale delle imprese” con un sindacato che si riappropri della logica contrattuale “partecipativa”, abbandonando sia la cultura del modello antagonista, sia quella subordinata, che sono entrambe, anche se opposte, sbagliate oltre che funzionali a conservare l’attuale status-quo. Senza andare in Germania, anche da noi ci sono esempi virtuosi: Ferrero, Barilla, ABB, etc.

 

Le risorse? Non è vero che non ci sono, che la coperta è corta, etc., perché ci sono risorse occulte pari a 160-170 mld/anno di evasione, 60-70 mld/anno di corruzione, il sommerso stimato al 17,5% del PIL, oltre a enti inutili, comunità montane, municipalizzate, etc.  Quindi reperiamole emulando il modello USA contro evasione, corruzione e criminalità organizzata (fra l’altro, la maggior parte della popolazione carceraria americana non sono più “neri”, bensì “colletti bianchi”, cioè evasori e truffatori); si tratta solo di volerlo fare, è difficile ma non impossibile, adeguando i controlli incrociati e riadattando le normative, anche penali e soprattutto di confisca dei beni, con il vantaggio collaterale di scoprire e colpire la criminalità organizzata nella sua parte più sensibile, cioè le fortune illecitamente accumulate; anche per riaccreditare un senso civico della legalità e del vivere insieme, contro le furbizie, gli egoismi, le corporazioni, le clientele, il malaffare, etc.

Inoltre, perché non pensare ad un’imposta straordinaria per 4-5 anni (se non strutturale) sui grandi patrimoni, cioè su quel 10% di famiglie che detiene il 48% della ricchezza nazionale, che sono enormemente cresciuti anche in questi anni di crisi (aumentando di ben 7 punti). Un calcolo approssimativo: ad es. con lo 0,5% si avrebbero ben 24 mld di euro/anno, corrispondenti a 10.000 euro/medie/anno per ogni famiglia ricca, le quali non verrebbero di certo impoverite per questo (per loro) minimo importo, ma darebbero un contributo meritorio e solidale al paese, anche per il futuro dei loro come dei nostri figli. Non è una proposta scandalosa, a meno che non si pensi che c’è chi è esentato dai sacrifici che fanno tutti gli altri.

 

Concludendo, e tralasciando di dettagliare ulteriormente il tema delle risorse: si cresce “pagando tutti per pagare meno” e “lavorando meno per lavorare tutti” (per usare vecchi slogan da adattare alla nuova realtà odierna); cioè la crescita (e maggiore occupazione) si realizza con politiche di riduzione delle diseguaglianze e di ripartizione del lavoro; anche per rafforzare l’idea di un sistema capitalistico in grado di coniugare la libertà economica con la solidarietà sociale, centrato sul benessere diffuso dell’intera comunità, contrapposto ed alternativo all’egoistico arricchimento individuale con qualsiasi mezzo a scapito degli altri, che è il fondamento teorico del neo-liberismo avido (che non è affatto sinonimo di libertà, come dimostra la convivenza e complicità con il totalitarismo cinese, proprio perché è esso stesso sopraffazione e totalitarismo).

Per risalire la china e battere disaffezione, qualunquismo e il riemergere del populismo, altrimenti inarrestabili, servono perciò idee e proposte concrete, determinazione e passione, ma soprattutto la capacità di lottare (perché essere ragionevoli e responsabili non significa essere arrendevoli) per ideali e valori riconducibili ad un “nuovo approccio culturale”, una nuova filosofia, una nuova (mi si passi il termine) IDEOLOGIA,   una governance equa e solidale dell’economia, per un’Italia diversa, che riconosca il merito ed aiuti chi ha bisogno, un paese solidale che assicuri l’eguaglianza delle opportunità, prefiguri una società meno diseguale, per riattivare e rendere ancora possibile la mobilità sociale.

 

(Flavio Pellis – Segr. gen.le AReS -Associazione Riformismo e Solidarietà)

 

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