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10 giugno Koiné

di Pierre Carniti

"Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta", diceva Paul Valèry. Così la pensava anche la generazione di mio nonno. Che pure aveva vissuto la carneficina della prima guerra mondiale e la miseria delle condizioni di vita delle campagne. In questa contraddizione c'è il dato di fatto che l'idea di "progresso" ha costituito il concetto chiave dell'illuminismo e da allora ha sempre tenuto banco. Perché prometteva una continua evoluzione verso il meglio. In effetti la speranza portata da Voltaire e dagli illuministi era che il mondo e la società sotto il governo della razionalità sarebbe diventato passo a passo un luogo migliore. Manzoni ci ha però indotto a diffidare da questo  modo di pensare sostenendo che "non sempre quel che viene dopo è progresso".

 

Esperienza che stiamo facendo direttamente da parecchio tempo. Naturalmente: si deve conservare la memoria, anche per evitare di ripetere gli stessi errori, ma senza mitizzare il passato. Perché la cosa buona del passato è che è  passato. Mi riferisco in particolare alle tensioni che hanno caratterizzato la dialettica politica e sociale nell'83 e nell'84. Vicende che hanno occupato le cronache dell'epoca fuorviate però da un racconto propagandistico ed in larga misura inattendibile, che non ha certo aiutato a capire i termini della situazione e la posta in gioco. Così non siamo riusciti  a metabolizzare  cause ed effetti di vicende che hanno costituito uno spartiacque del momento politico-sociale trascinandone le conseguenze anche quando le circostanze erano completamente mutate ed avrebbero suggerito un diverso approccio.

E' quindi opportuna qualche breve considerazione di contesto. Dopo la prima crisi petrolifera, alla fine degli anni '70 si erano manifestati i segni di una grave "crisi fiscale", dovuta al progressivo divario tra l'aumento della spesa pubblica e l'assai più lenta crescita delle entrate fiscali. La spesa sociale aveva un peso decisivo in questo squilibrio. Il fenomeno non era solo italiano, ma riguardava, sia pure con caratteristiche diverse, tutte le democrazie industriali. Alla fine degli anni '70 la spesa sociale rappresentava quasi ovunque, rispetto al Pil, una quota tra il 25 ed il 30 per cento. L'Italia nell'81 arrivava al 29,1 per cento contro il 16,8 del 1960. La spesa pubblica sarebbe salita dal 24 per cento del 1951 al 54,4 per cento del 1982. L'incidenza della spesa sociale su quella totale era passata dal 19,4 per cento del 1951 al 37,7 per cento del 1977. Dal canto suo la pressione fiscale che fino al 1975 si era mantenuta costante intorno al 27 per cento era continuamente aumentata dopo l'entrata in vigore della riforma fiscale del 1973. Nel frattempo c'era stata una crescita persistente del debito pubblico. La ragione era del tutto comprensibile. Mentre l'indebitamento del settore pubblico nei primi anni '60 assorbiva poco più dell'1 per cento del Pil, tra il 1970 ed il 1974 la sua incidenza saliva dal 4,2 al 7,6 per cento per stabilizzarsi nella seconda metà del decennio al 10 per cento. Il governo italiano non predispose un piano di rientro, pensò che per far  fronte allo squilibrio di bilancio, ma non alla crescita del debito, bastasse l'aumento delle entrate conseguente alla riforma fiscale del 1973. La riforma aveva sostituito il vecchio sistema di prelievo su base "censuaria" introducendo una trattenuta alla fonte cui risultavano totalmente soggetti i soli lavoratori dipendenti con  una automaticità del prelievo che li differenziavano dalle altre categorie di contribuenti. Inutile dire che in tale quadro il problema "dell'evasione fiscale." diventava ancora più acuto. Aggravando la tendenza tipicamente italiana che la sola attività che ha sempre comportato un premio è stata ed è "l'evasione fiscale".

In questo quadro l'accordo del 1983 aveva dato alcune prime risposte significative in termini di "politica dei redditi". I salari erano deperiti. Tariffe ed equo canone erano schizzati alle stelle. Il ministro Scotti aveva saputo portare a termine una trattativa per molti versi esemplare. Per l'inedito carattere "triangolare" e per i contenuti in cui si era concretizzata. Essa era infatti, al tempo stesso, una soluzione di merito ed una indicazione di metodo. Anche se nata in una congiuntura particolare. Infatti, dopo la fine dell'"unità nazionale", il governo era formato da un monocolore democristiano e costituiva un ponte verso le elezioni politiche anticipate del giugno 1983. In quel clima di generale incertezza alla fine, nella corrente maggioritaria della Cgil (in particolare in Lama) era prevalsa, seppure in presenza di contrasti, la prudente valutazione di non aggiungere ad una situazione delicata anche l'imprevisto di una rottura sindacale. L'accordo si prestò ad essere teorizzato, nei suoi profili politico-istituzionali, come "scambio politico". In cui il sindacato nella pienezza della sua autonomia esprimeva il ruolo di "soggetto contraente" in una mediazione dai contenuti insieme politici e sociali. Bisogna dire che  questo schema era scarsamente condiviso ed accettato dal Pci.

Il negoziato del 1984, pur essendo stato avviato sulla base di una piattaforma unitaria si aprì dunque già carico di tensioni. C'erano state le elezioni che non avevano costituito ragione di soddisfazione per nessuno. Poi si era insidiato il governo Craxi che meno di ogni altra formula piaceva ai comunisti. In effetti già il 7 gennaio la direzione comunista prendeva posizione sulla trattativa con una pregiudiziale che avrebbe poi costituito l'argomento principe di tutte le ulteriori polemiche. Si trattava di un ammonimento al sindacato perché non assumesse impegni la cui contropartita da parte del governo doveva rimanere prerogativa del Parlamento. Era quindi un no netto allo "scambio politico" che avesse per protagonista il sindacato e reintroduceva una distinzione di principio tra partito e sindacato circa le rispettive competenze. Infatti per il gruppo dirigente del Pci il "primato della politica" doveva essere inteso esclusivamente come "primato del partito". Anche se non era la riproposizione della vecchia teoria della "cinghia di trasmissione" era quanto meno l'affermazione di una "autonomia limitata". Per altro, dal punto di vista istituzionale i comunisti ponevano una ulteriore questione di principio. Quella del primato del Parlamento, come sede esclusiva di decisionalità politica rispetto all'esecutivo. In sostanza rivendicavano una logica istituzionale "consociativa". Avrebbero poi ribadito nei mesi seguenti aspre polemiche per ribadire quest'ultima come una regola di "costituzione materiale", la cui violazione era considerata di per sé motivo di scontro politico.

Dal 7 gennaio agli inizi di febbraio trascorse quindi un mese di complicati negoziati. C'era del resto nella componente comunista della Cgil una parte che, cominciando da Lama, intendeva giocare tutto il margine residuo di autonomia che la presa di posizione del partito avrebbe consentito. Ma questo spazio era troppo ristretto. Nel giro di pochi giorni si consumava infatti la rottura tra le organizzazioni sindacali che vedeva Cisl, Uil e la componente socialista della Cgil che avevano condiviso i termini dell'accordo. Accordo nel quale, assieme a diverse misure di consolidamento della protezione sociale e di difesa del salario reale, veniva stabilita la predeterminazione degli scatti di 3 punti di scala mobile sulla base del saggio programmato di inflazione.

Come convenuto alla fine della trattaiva, sull'insieme delle misure applicative dell'accordo, il governo varava un decreto. Contrariamente a quanto si è detto e scritto Craxi fu in realtà fino all'ultimo incerto se prendere atto o meno della rottura che si era verificata tra le organizzazioni sindacali e procedere come convenuto. La stessa titubanza, con la cauta eccezione di Gianni Agnelli, veniva espressa dal comitato di presidenza della Confindustria. Ma in realtà non c'arano altre opzioni. Quando l'ostruzionismo parlamentare del Pci fece decadere il decreto il governo si trovò nella necessità di reiterarlo (17 aprile 1984). Ne seguì una ondata di rivendicazionismo, agitazionismo, settarismo. Sopratutto seguì una inevitabile rottura della Federazione unitaria mettendo in crisi i Consigli di fabbrica. A dare ad essi il colpo di grazia anche in questo caso fu il Pci. La mobilitazione di massa contro l'accordo fu infatti sostanzialmente opera del partito. Usando la fictio iuris dell'autoconvocazione dei consigli di fabbrica. Così facendo veniva doto un colpo decisivo alla loro esistenza ed a quel che restava dei collegamenti unitari al vertice. Infatti le altre organizzazioni sindacali comunicavano alla Cgil che se avesse dato appoggio ad uno sciopero non proclamato da nessun sindacato ne sarebbe derivata una inevitabile rottura dei rapporti. Ma poiché la Cgil non era in grado di tenersi fuori dalla grande manifestazione comunista contro il decreto le tensioni tra le organizzazioni non potevano che aggravarsi.

A piazza S. Giovanni, dove era prevista la conclusione della manifestazione, Lama tenne un discorso pacato (di cui, per altro, mi aveva fatto avere in precedenza il testo) che deluse molti dei presenti. Facendo capire che, per quel che lo riguardava, si schierava nella riserva  in attesa che la buriana passasse e riprendere poi  il dialogo così improvvisamente interrotto. Ma la burrasca non era destinata a placarsi. Perché dopo l'improvvida decisione di Berlinguer, fatta propria alla sua improvvisa morte da Natta e dal gruppo dirigente del Pci, di ricorrere all'abrogazione referendaria del decreto che aveva recepito l'accordo, la rottura era tutt'altro che destinata a ricomporsi rapidamente. Tant'è che a trent'anni di distanza, malgrado sul piano economico, sociale e del lavoro sia successo di tutto, sono ancora visibili le ferite.

In effetti il lavoro ed il sindacato sono rimasti prigionieri di un sistema diffuso di nuvole basse e, fin'ora non si sono verificati miglioramenti. La ragione è che nell'establishment ha progressivamente preso piede la teoria in base alla quale, a causa della  globalizzazione, della diffusione dell'informatica e della robotica, la caduta del tasso di occupazione, si sarebbe aperta una fase nella quale si può fare a meno del sindacato e della contrattazione. Non è un caso che 7 milioni di lavoratori siano privi di contratto. Che membri del governo ritengano che "ascoltare" e "negoziare" siano sinonimi.  Che il coinvolgimento  dei gruppi sociali intermedi nella mediazione per un corretto ed efficace rapporto società-Stato e come fattore di coesione sociale, sia considerata una inutile perdita di tempo. Che la concessione di 80 euro  ai lavoratori dipendenti al di sotto di un determinato reddito sia stata considerata (non solo da politici di centro-destra e di centro-sinistra, ma anche da sindacalisti) una misura di riduzione delle diseguaglianze quando in realtà, essendo limitata ai lavoratori dipendenti, era soltanto una misura per azzoppare la contrattazione a cui  verrebbe assestata la botta decisiva se prendesse piede anche l'idea di eliminare  la contrattazione di primo livello per sostituirla con quella di secondo livello. Non perché questa sia da considerare un'idea eretica, tenuto conto che la contrattazione non è solo somma, ma anche scambio. Ma per la buona ragione che prescinde completamente dalla struttura delle imprese italiane e finirebbe perciò per lasciare il grosso dei lavoratori del tutto privi di tutele.

Anche se la mia licenza ad occuparmi di questioni sindacali è scaduta da tempo spero mi consentirete di dire che se non venisse fatta una esplicita battaglia per distinguere chiaramente le prerogative sindacali da quelle legislative (come sostenuto dai maggiori studiosi della teoria e della pratica del'azione sindacale) difficilmente la contrattazione potrà uscire dal tunnel in cui è imprigionata. Questa iniziativa è tanto più urgente considerato che anche l'opinione pubblica  è ormai sconcertata. Infatti nel crescente e non immotivato discredito (considerato il malaffare e la diffusa corruttela) delle istituzioni pubbliche tutto e tutti finiscono per essere travolti. Del resto basta seguire (cosa che io non faccio più da tempo) i discorsi della compagnia di giro presente nelle trasmissioni televisive della chiacchiera, cioè nei cosiddetti talk show, per rendersi conto dell'immagine caricaturale, del discredito che viene rovesciato anche sul sindacato. Ben al di là dei suoi limiti e demeriti. Che ovviamente andrebbero affrontati. Diverso tempo fa mi è capitato di ascoltare una conversazione surreale tra un imprenditore ed un intervistatore. l'imprenditore,  avendo deciso di assumere un dipendente aveva accompagnato la richiesta dalla condizione: "purché non iscritto al sindacato". Sollecitato a specificarne il motivo aveva risposto: "perché hanno meno voglia di lavorare". Facendo intendere che la causa era che gli iscritti al sindacato  sarebbero stati troppo pignoli nel pretendere il rispetto delle norme  contrattuali.

Dovrebbe essere chiaro che di fronte ad una simile situazione limitarsi alle denunce ed alle recriminazioni non serve a nulla. Ho già detto che non ho più la licenza. Infatti è così. Ma credo di avere sufficiente esperienza per poter dire che se il movimento sindacale non  si accorda su obiettivi comuni esprimendo al contempo la volontà di sorreggerli con iniziative unitarie, superando divisioni  ormai puramente identitarie,  difficilmente riuscirà a modificare il corso delle cose.

 

 

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