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La disoccupazione tra chiacchiere ed indifferenza

di Pierre Carniti

Malgrado il tema del lavoro sia oggetto di sempre più debordanti inchini retorici, la disoccupazione resta sostanzialmente un problema dei disoccupati. Né potrebbe essere diversamente considerato che, negli ultimi anni, le politiche pubbliche si sono tutte concentrate sulla cosiddetta “riforma del mercato del lavoro”, che ha moltiplicato forme e normative dei rapporti di lavoro lasciando ovviamente immutata la dimensione della disoccupazione.  Così, più diventava chiaro che il problema con il quale eravamo (e siamo) alle prese è la mancanza di domanda di lavoro, più ci si è accaniti con interventi sul versante dell’offerta. Al punto che ormai sono stati collezionati quasi trenta tipi diversi di contratti. A questa inflazione non è sicuramente estraneo il fatto che ogni nuovo ministro del lavoro che arriva (e, come sappiamo,  da noi si avvicendano con una certa frequenza) vi aggiunge la sua misura. Convinto che possa essere quella decisiva. 

 

Allo stato manca solo quella del “lavoro agile” o “smartwork”, come lo chiamano gli anglofili. In sostanza si tratterebbe di concedere ai dipendenti la possibilità di lavorare come liberi professionisti. Organizzando il tempo in autonomia. Naturalmente con il vincolo dei “risultati”. In tal modo alla proliferazione delle “false partite Iva”, avremo finalmente anche quella dei “falsi professionisti”. Non resta quindi che aspettare con fiducia per vedere se tra le varie offerte del “Job Act”, sarà previsto anche questa modalità. Le possibilità sono buone. Considerato che una proposta di legge in questo senso è già stata presentata alla Camera da tre Deputate dei partiti di maggioranza. Quel che è certo, venga aggiunta o meno qualche nuova immaginifica norma al già ricco armamentario dei contratti di lavoro, è che non ci saranno effetti sulla disoccupazione. Previsione, sia detto per inciso, che non dipende da immotivato scetticismo o da un pregiudizio politico sulla buona volontà e capacità di chi ci governa, ma soprattutto dal fatto che si continua a “fare i conti senza l’oste”. In quanto nella cosiddetta “lotta contro la disoccupazione” si ignora totalmente la sua doppia natura. Stando così le cose è del tutto improbabile che si possano raggiungere risultati di cui avremmo bisogno.

Per affrontare concretamente il problema, il primo aspetto di cui si deve tenere conto è la disoccupazione provocata da “insufficienza da domanda effettiva”. Ossia da domanda assistita da una adeguata distribuzione dei redditi. L’assunto è semplice. Essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata sul mercato l’occupazione è inevitabilmente destinata a calare. E’ appunto quanto è avvenuto nel corso della crisi con cui siamo ancora alle prese.  Il rimedio a simile disoccupazione (detta “keynesiana”, perché descritta magistralmente da Keynes) consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e dello Stato. Purtroppo il potere d’acquisto dei salari e dunque delle famiglie perde colpi perché la contrattazione langue, quando addirittura non regredisce. Mentre, per quanto riguarda la domanda pubblica, più stringenti sono i vincoli di bilancio (e questo è appunto il caso dell’Italia) più probabile è che le misure di rilancio  si rivelino insufficienti. O che comunque, proprio a causa dei vincoli di bilancio, tra misure tendenzialmente espansive ed interventi restrittivi della spesa pubblica il saldo algebrico sia alla fine negativo.

Il secondo tipo di disoccupazione, di cui poco si parla ma le cui conseguenze sono sempre più evidenti ed  estese, è quella tecnologica.  Il punto da avere ben chiaro in proposito è che non esiste più (ammesso che sia mai esistita in passato) una correlazione pratica e stabile tra produzione di merci ed occupazione. In ogni caso, mentre è ancora vero che se la produzione cala anche l’occupazione scende, non è più vero il contrario. In sostanza non ha alcun fondamento la convinzione, per altro ancora assai diffusa, che se la produzione riprende pure l’occupazione aumenta. Tant’ è vero che sempre più spesso, pur in presenza di un aumento degli investimenti o modesti aumenti del Pil, i disoccupati crescono invece di diminuire. La spiegazione per questo andamento asimmetrico è semplice: i posti di lavoro che si guadagnano dove si “producono” le macchine e si innova la tecnologia non compensano quelli che si perdono dove si “introducono” le macchine e le innovazioni tecnologiche. Si tratta appunto della “disoccupazione tecnologica”. Fenomeno non nuovo (già individuato da Riccardo nel XIX secolo) di sostituzione del lavoro con macchine. Ma che ora, con la diffusione dell’informatica, dell’automazione e della robotica, ha assunto una ampiezza ed una velocità eccezionali. Sia pure su scala e con una intensità diversa si tratta di un evento già largamente sperimentato nella prima e nella seconda rivoluzione industriale ed a cui (allora)  si è risposto con una riorganizzazione degli orari ed una ripartizione del lavoro.

Gli storici dell’economia sottolineano infatti che nel caso delle prime due rivoluzioni industriali la questione di contrastare la disoccupazione con più tempo libero è stata risolta a favore di quest’ultimo. Sebbene solo dopo una prolungata lotta tra lavoratori e datori di lavoro sulla questione dell’utilizzo della produttività. In effetti i cospicui incrementi di produttività ottenuti nella prima fase della rivoluzione industriale nel XIX secolo (caratterizzata dal passaggio dall’energia idraulica al vapore e poi all’elettricità) sono stati seguiti da una riduzione dell’orario di lavoro prima da 80 a 72 e poi fino a 60 ore settimanali. Allo stesso modo nel XX secolo, quando le economie industrializzate hanno sperimentato una nuova organizzazione produttiva (con il fordismo e le linee di montaggio), il forte aumento della produttività ha condotto ad un ulteriore accorciamento della settimana lavorativa, che è arrivata a 48 ore e poi a 40.

Analizzando la storia economica e facendo una previsione sul futuro, in una celebre conferenza tenuta a Madrid nel 1930 (“Prospettive economiche per i nostri nipoti”) Keynes si diceva convinto che nel giro di un secolo l’umanità avrebbe potuto risolvere definitivamente quello che negli ultimi due secoli era stato il suo assillo principale: il problema economico. “Mi sentirei di affermare – diceva infatti il grande economista – che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso, sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Non vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Per altro non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori” Partendo da queste premesse Keynes giungeva ad una conclusione che non esitava a definire “sconcertante”. Perché sconcertante? Perché, a suo avviso non esiste paese o popolo che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza.  “Per troppo tempo infatti siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di  darsi una occupazione è pauroso, specie se non ha radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. [….] Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi, che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. [….] Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono (però) tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi”. Tuttavia la società politica (ma anche gli intellettuali e le forze sociali) non hanno però dimostrato questa lungimiranza e perciò il problema economico e della disoccupazione, invece di essere avviato a soluzione si è aggravato.

A sua volta il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli muovendo da considerazioni pratiche ha sostenuto che, è anche nell’interesse delle imprese, rispondere alla innovazione tecnologica con una riduzione degli orari di lavoro. Il suo ragionamento è esplicitato in una lettera del 5 gennaio 1933 diretta a Luigi Einaudi. “Partiamo dalla premessa – scrive infatti - che in un dato momento, in un dato Paese, a ipotesi nella parte industrializzata di questo nuovo mondo, via siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro. Scelgo il dollaro sia perché è moneta da parecchie generazioni invariata in un dato peso d’oro, sia perché mi consente di esporre calcoli semplicissimi con il minimo uso di operazioni aritmetiche [….] Sulla base di un dollaro ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi e ogni giorno industriali ed agricoltori mettono sul mercato 100 milioni di merci e di servizi. Produzione, commercio, consumi si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti. A un tratto – in verità le cose si svolgono diversamente per esperimenti vari e successivi, ma debbo semplificare – uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali permettono risparmio di lavoro e maggiore guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono 25 milioni di disoccupati nel mondo. Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento tecnico.” 

“In sostanza invece di 100 milioni di operai, ossia 800 milioni di ore di lavoro al giorno per produrre una determinata massa di beni e servizi, dopo l’invenzione ne basteranno 70 e poi 60 milioni di operai a produrre quanto il mercato richiede. E’ una catena paurosa che a noi pratici pare svolgersi senza fine, sebbene voialtri economisti ci abbiate abituati a credere che a un certo punto si deve ristabilire l’equilibrio”. Ma “il danno sembra a me derivare dallo sfaldamento tra due velocità: la velocità del progresso tecnico che ha ridotto di un quarto la fatica necessaria a produrre e la mancanza di progresso nell’organizzazione del lavoro, per cui l’operaio che lavora seguita a faticare le stesse otto ore al giorno di prima. Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché a produrre una massa invariata di beni e servizi occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento, per 8 ore al giorno, rimarranno occupati nel secondo momento per 6 ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come oro colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi”. In buona sostanza la preoccupazione di Giovanni Agnelli era determinata dal fatto che un sistema di produzione di massa non sarebbe riuscito a stare in piedi se non avesse creato le condizioni per un parallelo sviluppo di consumi di massa. Le sue opinioni e le sue scelte erano quindi mosse dalla considerazione per i propri interessi e per quelli dello stesso mondo imprenditoriale. Ma questo non può essere considerato un motivo disdicevole o di recriminazione.  Perché come del resto aveva già ammonito Adam Snith “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità”

Che l’egoismo del singolo sia compatibile (se non necessario) per il bene della collettività, non è così pacifico, ma è da sempre considerato un principio base della scienza economica. Purché, almeno per chi ha a cuore le questioni sociali, non si trascendano determinati limiti. In particolare un aumento delle diseguaglianze politiche, economiche e sociali che finiscono per mettere in causa la stessa tenuta della comunità. Ed è quanto invece  si sta verificando. Il rischio implicito in tale situazione è stato messo bene in evidenza da Bertrand Russel il quale ha voluto attirare l’attenzione sugli aspetti morali e sociali che comportano un prezzo sempre più esoso. “Supponiamo – scriveva nel 1935 – che in un dato momento un certo numero di persone sia impiegato nella produzione di spilli. Queste persone producono una quantità di spilli che risponde al fabbisogno di spilli del mondo intero lavorando, poniamo, otto ore al giorno. A un certo punto qualcuno fa una invenzione per cui lo stesso numero di persone produce una quantità doppia di spilli. Ma il mondo non ha bisogno di tale quantità doppia di spilli. Gli spilli sono così a buon mercato che neanche ad un prezzo più basso ne sarebbe acquistata una quantità maggiore. In un mondo sensato tutti coloro che sono coinvolti nella produzione di spilli dovrebbero lavorare quattro ore al giorno anziché otto e tutto il resta andrebbe avanti come prima. Ma nel mondo reale questo sarebbe ritenuto demoralizzante e quindi gli uomini continuano a lavorare otto ore al giorno. La quantità di spilli prodotta eccede la domanda, alcuni imprenditori falliscono e metà degli uomini che prima erano impiegati nella produzione degli spilli vengono espulsi dal lavoro. Alla fine c’è nel complesso la stessa quantità di tempo non dedicato al lavoro rispetto alla soluzione alternativa, ma metà degli uomini è completamente in ozio mentre l’altra metà è pienamente occupata nel lavoro. In questo modo è garantito che l’inevitabile incremento del tempo non dedicato al lavoro causerà una diffusa miseria anziché essere una fonte universale di felicità. Si può immaginare qualcosa di più folle?”

Scenario che per quanto “folle” ci è purtroppo ci è sempre più familiare. Ma perché Russel ritiene che nel “mondo reale” la riduzione degli orari possa essere considerata “demoralizzante”? Ovviamente per le resistenze conservatrici del mondo economico e politico. Ma probabilmente anche perché nel ribaltamento del rapporto tra tempo libero e tempo di lavoro il risultato determina un radicale cambiamento dei valori ed una modalità di esistenza incompatibili con la cultura tradizionale. Non a caso, come sosterrà negli anni ’60 Herbert Marcuse (in Eros e Civiltà, che tanta fortuna ebbe negli anni della contestazione studentesca), “poiché la durata della giornata lavorativa è in sé stessa uno dei principali fattori di repressione imposti dal principio della realtà sul principio del piacere, la riduzione della parte della giornata lavorativa dedicata al lavoro è il più importante prerequisito per il raggiungimento della libertà”. Tuttavia, al di là dell’interpretazione ideologica di Marcuse, forse ci sono anche motivazioni più banali. In particolare il fatto che le tecnologie ci hanno liberato dalle incombenze più pesanti, ma ci hanno anche reso sempre raggiungibili, sempre disponibili, sempre pronti a riempire gli intervalli con qualche attività a portata di smartphone. Senza contare che essere super-impegnati da molti è considerato quasi un obbligo sociale. In effetti ci si lamenta dei troppi impegni, ma non pochi fanno a gara a chi ne ha di più. Infatti per alcuni essere super-occupati è uno status. Perché così si sentono più importanti.

Quali che siano le motivazioni di questi comportamenti resta un dato di fatto incontrovertibile. Sebbene nei precedenti periodi storici e fino alle soglie degli anni ’70, gli aumenti di produttività abbiano provocato una costante riduzione del numero medio di ore lavorate, nei quarant’anni che sono passati dalla introduzione delle tecnologie informatiche e del crescente risparmio di lavoro che essere hanno determinato, questo processo si è arrestato. Al punto che in alcuni paesi, tra i quali l’Italia, gli orari medi sono superiori a quelli di 40 anni fa. In media infatti lo spread degli orari annuali italiani rispetto a quelli europei è di ben 300 ore superiore. Non deve quindi sorprendere che anche la nostra disoccupazione sia proporzionalmente maggiore.

In ogni caso, mentre in passato intorno all’utilizzo degli incrementi di produttività si era sviluppato un grande dibattito che vedeva impegnati intellettuali, imprenditori, parti sociali ed anche politici, (all’inizio degli anni ’70 la presidenza degli Stati Uniti, sulla scia di Keynes, immaginava che entro la fine del secolo XX si sarebbe potuto arrivare ad un anno lavorativo di 6 mesi, o un’età media per la pensione di 38 anni) oggi il tema è stato sostanzialmente rimosso. Anzi, si è andati nella direzione opposta. Quali le cause?

Si può ritenere che la rivoluzione della produttività abbia condizionato la quantità di tempo dedicata al lavoro in due modi. L’introduzione di tecnologie laborsaving ha permesso alle imprese di eliminare grandi masse di lavoratori creando un esercito di riserva senza occupazione che gode di “tempo libero” obbligato. Perciò chi ha ancora un lavoro è costretto a lavorare più ore, in parte per compensare i salari più bassi prodotti da un mercato del lavoro nel quale l’offerta supera largamente la domanda. Ma anche perché, nell’opinione corrente, si è fatta strada la convinzione che per competere sui mercati globali le imprese non possono fare altro che sottoporre a cura dimagrante salari e diritti del lavoro. Scelta non sufficientemente contrastata (dai lavoratori e dalle loro organizzazioni) che ci rimanda all’apologo di Leontieff sul destino dei cavalli quando è stato introdotto il trattore. Infatti secondo il premio Nobel per l’economia, quando in agricoltura venne introdotto il trattore i cavalli avrebbero potuto decidere di lavorare per meno biada e meno fieno, ma poiché nel frattempo i trattori sarebbero diventati sempre più potenti, se alla fine i cavalli avessero anche deciso di lavorare gratis (cioè senza biada e senza fieno) sarebbero stati ritenuti non più produttivi e mandati ugualmente al macello. E’ quanto purtroppo si è verificato per milioni di lavoratori.

Dunque il fatto tanto indiscutibile quanto trascurato è che la disoccupazione attuale (se si esclude l’occupazione derivante dai servizi alla “persona”, o per certi lavori manuali, come ad esempio l’idraulico) ha una chiara impronta “ricardiana”. Come conseguenza del passaggio dalla produzione fordista a quella post-fordista. Che ha significato progressiva sostituzione dell’informatica, dell’automazione e della robotica al lavoro. Ne è derivato un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e che, in assenza di politiche capaci di dare risposte concrete al problema, resta lì. Nella terra di nessuno. Almeno finché sopporta la propria esclusione. 

Questa disoccupazione era già presente negli ultimi decenni del secolo scorso, ma allora si era pensato di poterla recuperare, almeno in parte, tramite la “precarizzazione” del mercato del lavoro, in base all’assunto che le imprese avrebbero avuto “convenienza” ad utilizzare quei lavoratori “usa e getta”. Almeno in una certa misura così è stato. Ma con l’ovvia conseguenza di un calo sensibile della produttività del lavoro. Perché se si possono costringere i precari a lavorare di più non gli si può imporre anche di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una occupazione flessibile ma a bassa produttività. Come hanno ampiamente messo in evidenza diverse ricerche. 

Contro l’occupazione patologicamente flessibile ha provato a muoversi la riforma Fornero. Con soluzioni discutibili, ma con una motivazione giusta: il lavoro precario deve costare di più del lavoro stabile. Oggi, con il decreto sul lavoro del governo Renzi, siamo alla “riforma della riforma”. Giustificata da una discussione surreale. Essa verte infatti, non se sia utile o meno disincentivare forme dilaganti di lavoro flessibile e precario, ma se l’obbligo a motivare la causale sia da ritenere una ragione sufficiente o meno a scoraggiare le aziende dal fare assunzioni. 

Inutile dire che non è certo da simile approccio che potrà derivare un aumento dell’occupazione. E, per altro, nemmeno la tanto auspicata crescita porterà i nuovi posti di lavoro che invece servirebbero. Almeno per i prossimi anni. Le ragioni sono tante. Non ultima quella relativa al fatto che, come detto, la disoccupazione con cui siamo alle prese è appunto in larga misura di tipo “ricardiano”. Quindi non può essere curata con “placebo” e rimedi estemporanei. Che intervengono solo sui sintomi invece che sulle cause. Ai numerosi devoti che credono nelle cure omeopatiche come panacea per la disoccupazione potrebbe giovare la rilettura di una presa di posizione di Keynes. In particolare il richiamo al fatto che: “L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera”. La conseguenza è “una nuova malattia di cui alcuni […] possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”.

Questi effetti sono ormai visibili, non solo nell’industria, ma anche nei servizi: dalla grande distribuzione, alle poste, alle banche, ecc. In questi settori, la riduzione di decine di migliaia di addetti, a cui se ne aggiungeranno altre migliaia nel prossimo futuro, ha probabilmente peggiorato la qualità delle prestazioni (in conseguenza della abolita intermediazione del rapporto con il personale) ma non ne ha affatto ridotto la quantità.  Quindi, malgrado tutto, questo processo è destinato a proseguire. Tuttavia, si può però ragionevolmente pensare che, poiché i termini del problema della disoccupazione stanno ormai diventando sempre più acuti ed intollerabili, anche la resistenza delle imprese alla riduzione di orario sia destinata ad attenuarsi. Soprattutto se il management diventerà più consapevole della necessità “egoistica” (richiamata anche dal fondatore della Fiat già tre quarti di secolo fa) di evitare un cortocircuito tra produzione e consumo. Saldando quindi la frattura, altrimenti inevitabile, tra la maggiore capacità produttiva e la progressiva caduta del numero di consumatori e del loro potere d’acquisto. 

Tuttavia, perché questa svolta si verifichi in tempi utili è necessario che, in parallelo, si sviluppi un forte dibattito ed una adeguata pressione collettiva intorno all’obiettivo di riorganizzare e ripartire il lavoro. In tutte le  possibili varianti. Purché funzionali ad una più equa distribuzione del lavoro disponibile e dunque anche ad una efficace lotta alle diseguaglianze. Tra le quali la mancanza di lavoro è una delle più significative. Perché ha conseguenze non solo sulla distribuzione del reddito, ma anche su ciò che il lavoro ancora rappresenta nella vita delle persone. Sia in termini di identità,  che di appartenenza sociale e di pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza. 

Resta il fatto che la ridefinizione del ruolo dell’individuo e delle organizzazioni che rappresentano il lavoro in una società sempre più deprivata del lavoro di massa, costituisce sicuramente la questione fondamentale con cui dovrà sapersi confrontare la società del futuro. Nello stesso tempo bisogna sapere che per riuscire ad affrontare concretamente questa sfida il punto da avere chiaro, fin da ora, è che sarà impossibile fare davvero i conti con la questione della disoccupazione se si continuerà ad ignorarne la sua duplice natura: keynesiana e ricardiana. Perciò di una cosa occorre essere consapevoli: fino a quando questa presa di coscienza non incomincerà a farsi adeguatamente strada, la disoccupazione continuerà purtroppo a restare (per quanto ciò venga a parole considerato riprovevole) essenzialmente un problema dei disoccupati.

 

Roma, marzo 2014  

 

Pierre Carniti

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