di Pierre Carniti
Con la leggerezza tipica di un elefante in un negozio di cristalleria, Grillo si è buttato nell’iter parlamentare di discussione della Legge di Stabilità con la richiesta di introdurre in Italia il “reddito di cittadinanza”. Il movimento 5 stelle sostiene che la propria proposta, in materia, sia precisa e dettagliata. In realtà leggendola si ricava una impressione opposta. A cominciare dal nome del provvedimento. Anche perché ciò che i grillini prospettano è, sebbene confuso, più che un “reddito di cittadinanza” un classico schema di “reddito minimo garantito”.
Cioè una misura selettiva, condizionata e riservata a quanti si trovano in condizioni di difficoltà estrema (disoccupati, persone prive di reddito, anziani poveri, ecc.). Quindi non una norma universale ed incondizionata a beneficio di tutti i cittadini, come appunto il “reddito di cittadinanza”, o “reddito di base” (basic income). Istituto questo che, come sanno quanti si occupano di queste cose, prevede l’attribuzione di risorse a tutti i cittadini che compongono un determinata comunità politica (ed ai residenti stabili in tale comunità), indipendentemente dalla loro condizione economica, sociale ed occupazionale. Non a caso un vero e proprio “reddito di cittadinanza” (anche se dall’importo assai modesto di 2000 dollari all’anno) è riconosciuto nel solo Stato Usa dell’Alaska. Dove è finanziato dai profitti petroliferi. Per altro tale esperienza vanta il solo precedente trentennale (ora completamente riassorbito) della città di Berlino. Mentre in Svizzera sul tema è solamente previsto a breve un referendum propositivo. In buona sostanza le esperienze in materia sono da considerare del tutto eccezionali, prima ancora che limitate.
Può quindi non stupire che, nel suo consueto subbuglio linguistico, in cui la parola è sempre scissa dal pensiero, Grillo confonda il “reddito minimo garantito” con il “reddito di cittadinanza”. Ma, indipendentemente dagli equivoci definitori, c’è da dire che nemmeno sull’idea del “reddito minimo garantito” può essere issata (come pretenderebbero i grillini) la bandiera del movimento 5 stelle. Quasi che ne fossero gli inventori e ne detenessero quindi il copyright. Perché in realtà il “reddito minimo garantito” ha già una lunga storia. E non solo in Europa.
In effetti, in particolare nel lessico europeo, con la formula “reddito minimo garantito” si intende l’attribuzione, ad un cittadino di uno Stato (ed a certe condizioni, anche al residente stabile in quel paese) che non disponga di redditi adeguati, delle risorse monetarie sufficienti per condurre una esistenza libera e dignitosa. Al riguardo, hanno funzioni e presupposti analoghi anche istituti variamente denominati come: reddito minimo di inserimento, reddito di solidarietà attiva, reddito di sussistenza, ecc.
Tutte queste forme di sostegno a persone in difficoltà condividono la caratteristica di non essere universali. In quanto presuppongono una situazione di concreto bisogno ed, in genere, sono condizionate in vario modo all’obbligo di seguire (ad esempio nel caso di disoccupati) corsi di formazione o di stipulare patti di reinserimento con i servizi sociali o con quelli dell’impiego, sino al dovere (in alcuni paesi, anche se non in tutti) di accettare qualunque offerta di lavoro disponibile, indipendentemente dalla qualifica e dal salario.
Ma anche volendo sorvolare sulla confusione semantica c’è il problema persino più importante delle risorse da mettere in campo per poter dare attuazione ad un provvedimento di questa natura e portata. Secondo la supposizione formulata da Grillo il costo sarebbe all’incirca di 19 miliardi. Il vice ministro dell’economia Stefano Fassina ha contestato al leader dei 5 stelle che la sua, più che una stima realistica, sarebbe semplicemente una fanfaronata. Un numero estratto a caso dalla “smorfia” del comico genovese. In effetti, considerato che viene ipotizzato un reddito minimo di 600 euro al mese, se i beneficiari fossero i disoccupati (3 milioni ufficiali e 6 effettivi, secondo l’Istat) a cui dovrebbero essere aggiunti i titolari delle pensioni sociali e di quelle integrate al minimo, basterebbe fare una semplice moltiplicazione per arrivare alla conclusione che la somma necessaria per finanziare il provvedimento si aggira, più o meno, intorno ai 50 miliardi. Valutazione che costituisce una indiretta conferma del giudizio dell’Ocse, secondo il quale gli italiani (quindi Grillo compreso) sono estremamente scarsi in aritmetica.
Sul piano dei numeri dunque Fassina ha ragione. Ma questo non esonera lui e soprattutto il Pd di confrontarsi seriamente con il problema. Considerato che nell’ambito dell’Unione Europea solo l’Italia e la Grecia non hanno ancora una forma di “reddito minimo garantito” che risponda a quanto previsto dalla stessa normativa europea.
C’è da aggiungere che per perseguire questo obiettivo la strada non può essere quella semplicistica e sbrigativa di un emendamento alla Legge di Stabilità, ma deve essere proposta una legge ad hoc. Ben più meditata e coerente rispetto a quella targata 5 stelle. Che includa perciò, assieme alla mobilitazione di nuove risorse a carico di chi sta meglio, anche un profondo riordino e, ove necessario, il superamento dei diversi istituti che oggi assicurano (malamente ed in misura del tutto inadeguata) il sostegno e la protezione sociale a chi è in difficoltà. Che sono purtroppo tanti e sempre più a rischio, senza l’introduzione di misure di contrasto appropriate, di diventare ancora di più.
La questione vera dunque non è tanto quella di reagire ai polveroni sollevati da Grillo, semplicemente per attirare l’attenzione su di sé, quanto accertare se la sinistra democratica è in grado confrontarsi con il problema e di metterlo su un binario concreto. Non sarebbe quindi male se l’imminente congresso del Pd decidesse di incominciare a discuterne.
Pierre Carniti
Roma, 11 novembre 2013