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di Claudio Colombo

Dal punto di vista del giurista non c’è dubbio che la tutela più idonea e conforme a razionalità (in una parola: più giusta), rispetto ad un atto illegittimo che è stato commesso, è quella che riporta la situazione dei soggetti coinvolti al medesimo status quo, antecedente alla commissione dell’atto stesso, beninteso se possibile. Tanto per fare un esempio, a nessuno verrebbe in mente di negare a colui al quale è stata illegittimamente sottratta una cosa che gli appartiene la tutela costituita dalla restituzione della stessa. Più in generale, gli ordinamenti giuridici evoluti prevedono sempre un’opzione preferenziale in favore della realizzazione in concreto (cosiddetta tutela reale, o in forma specifica) degli interessi sottesi alle situazioni soggettive che non vengono spontaneamente attuate, o che vengono violate, mentre la tutela, cosiddetta obbligatoria, o per equivalente (che opera sul piano della corresponsione di un risarcimento), è tendenzialmente riservata alle ipotesi in cui tale realizzazione non è materialmente possibile, o quando è il soggetto protetto dalla norma ad optare per questa via. Del resto, già l’attuale disciplina dei licenziamenti nelle imprese prevede, come è noto, alcune esenzioni dall’applicazione della tutela reale, motivate o in base al particolare rapporto fiduciario che caratterizza il legame tra il datore di lavoro e i suoi collaboratori di vertice (è il caso dei dirigenti), o in base al particolare contesto dimensionale dell’azienda, che sconsiglia la ricostituzione coattiva di rapporti inevitabilmente deterioratisi sul piano personale, a seguito della vicenda del licenziamento (è il caso delle imprese fino a 15 dipendenti). Ciò detto, personalmente ritengo che le argomentazioni metagiuridiche degli odierni detrattori della tutela reale pecchino di una certa genericità. Esse, infatti, oscillano tra la necessità di attrarre le imprese estere, che non investirebbero in Italia anche a causa della presenza dell’attuale articolo 18, e quella di eliminare un disincentivo, per le stesse imprese italiane, ad ingrandire le proprie dimensioni. La prima argomentazione, infatti, è tutta da dimostrare: in un Paese carente dal punto di vista delle infrastrutture, con un debito pubblico elevatissimo, e nel quale dilagano criminalità organizzata, corruzione, evasione fiscale e disfunzioni della pubblica amministrazione, non mi sembra proprio che il deficit di attrattiva sia determinato dall’articolo 18. Quanto alla seconda, l’esperienza tedesca sta a insegnare che, nonostante la previsione della tutela reale anche nell’ambito di imprese con un numero di dipendenti inferiore a quello previsto dall’articolo 18, è stato comunque possibile lo sviluppo di grandi realtà produttive, senza eguali nel contesto europeo. Ci sono, infine, altri due profili, che sovente vengono richiamati a sostegno della necessità dell’abrogazione, almeno parziale, del rimedio costituito dalla reintegrazione nel posto di lavoro. Il primoattiene all’eccessiva disparità di trattamento, che con l’attuale assetto normativo si determina tra lavoratori troppo garantiti e lavoratori per nulla garantiti. In merito a tale profilo, ame sembra che l’introduzione di regole volte a negare la tutela reale a chi oggi ne è garantito, non abbia nulla a che vedere con l’acquisizione di maggiori vantaggi per chi oggi non è garantito. L’altro profilo concerne l’elevato grado di incertezza conseguente al cattivo funzionamento del sistema giudiziario italiano, con le sue lungaggini e con i suoi, veri o presunti, margini di arbitrarietà. Ebbene, se i timori legati al funzionamento della giustizia possono in parte essere senz’altro condivisi, è tuttavia indiscutibile che la proposta contenuta nel disegno di legge governativo approvato la scorsa settimana sia destinata non già a migliorare, ma ad aggravare (e non di poco) la situazione. Nell’attuale sistema, infatti, una volta accertata l’insussistenza della giusta causa, il giudice dispone la reintegrazione, ed è il lavoratore che può eventualmente rinunciarvi, preferendo il pagamento delle mensilità sostitutive. In questo senso, dunque, l’attività e il potere del giudice sono limitati all’accertamento dell’esistenza o meno della ragione giustificatrice del licenziamento. Domani, se verrà confermato l’impianto della riforma, il giudice sarà chiamato, in caso di licenziamento disciplinare, a decidere la tutela da accordare in concreto (reintegrazione o indennizzo). Quanto questa soluzione sia incoerente rispetto all’obiettivo di “de-processualizzare” i licenziamenti,non è neppure il caso di enfatizzarlo eccessivamente, tanto è palese. A ciò si aggiunge il fatto che il diverso rimedio tra licenziamenti disciplinari e licenziamenti per motivi economici aprirà la strada a contestazioni del lavoratore, che si sia visto licenziare a suo parere fittiziamente per motivi economici, al fine di dissimulare il vero motivo: anche qui, con buona pace dell’esigenza di non appesantire il contenzioso. Relativamente ai licenziamenti per motivi economici, Pietro Ichino ha scritto che l’indennità prevista in tali ipotesi «dovrebbe essere garantita al lavoratore sempre e automaticamente, per evitare l’alea della controversia in tribunale e al tempo stesso per farne un efficace filtro automatico delle scelte imprenditoriali ». Questa proposta - la si condivida o meno - ha senz’altro il pregio della chiarezza, ma sposta evidentemente la questione dal versante rimediale a quello del presupposto pre-giuridico. Affermare infatti che l’indennità, in caso di licenziamento per dichiarati motivi oggettivi, è automatica, significa necessariamente sganciare il licenziamento in questione dalla sussistenza e dall’accertamento del giustificato motivo. Il fatto che la proposta di Ichino sia paradossalmente migliore per il lavoratore di quella contenuta nel disegno di legge del governo (in quanto in base a quest’ultima l’indennità verrebbe corrisposta solo in caso di licenziamento ingiustificato), la dice lunga su quanto la tutela sia ben più importante dell’affermazione di un principio. Mantenere infatti intatto il principio (e cioè quello secondo cui il licenziamento deve essere assistito da giustificato motivo), e contemporaneamente depotenziare il rimedio che lo dovrebbe sostenere, dà luogo ad una situazione peggiore di quella che si verifica eliminando lo stesso principio. *Docente Università di Sassari 

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