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Pensioni: crollo del potere d’acquisto

 

di Flavio Pellis – segretario generale AReS

I recenti dati diffusi dal sindacato pensionati SPI-CGIL evidenziano che il potere d’acquisto delle pensioni, negli ultimi 15 anni, è diminuito del 33% in rapporto all’economia reale, individuandone la cause unicamente nell’aumento di tasse e tariffe, aggiungendo che sono inoltre destinati a peggiorare per effetto del blocco della rivalutazione annuale (valevole per il biennio 2012-2013) introdotto con la riforma Fornero. Peraltro va rilevato che i pensionati non hanno nessuno strumento di difesa (con la rivalutazione bloccata oltre i circa 1.100 euro netti/mese; mentre tutti gli altri hanno strumenti di adeguamento: le imprese ed i commercianti con i prezzi, i liberi professionisti con le parcelle, i lavoratori con i CCNL – anche se molto svalutati,etc.). Ma non basta chiedere di reintrodurre la rivalutazione delle pensioni (vedi la recente lettera unitaria dei sindacati pensionati SPI-FNP-UILP ai candidati premier), bensì va assolutamente aperto il tema del meccanismo di rivalutazione, che è stato dimenticato/accantonato da TUTTI, compresi i sindacati dei pensionati (che invece dovrebbero esserne quantomeno a conoscenza)!

 

In particolare, sollevo DUE questioni:

  •  La prima riguarda l’effetto del meccanismo delle “fasce”, di cui (tolto il blocco) ne beneficerebbero tutti,
    non solo le basse pensioni entro il limite di 3 volte il trattamento minimo (cioè poco più di 1000 euro netti/mese), ma anche tutti gli altri, comprese le alte pensioni con importi elevati; questo meccanismo “lineare” (come quello pre-vigente al blocco), va assolutamente sostituito adottando un meccanismo proporzionalmente decrescente ed inversamente progressivo al reddito pensionistico fino ad una certa soglia (ad es.: 100% fino a 30.000 euro/anno, 70% fino a 50.000 euro/anno, oltre nessuna rivalutazione); 
  •  La seconda riguarda l’indice utilizzato per il calcolo, che non è l’indice Istat relativo alla “inflazione”, notoriamente determinato dalla variazione, da dicembre rispetto al dicembre dell’anno precedente, dell’indice generale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI); peraltro utilizzato per calcolare le rivalutazioni del T.F.R., del canone di affitto, dell’assegno di mantenimento per il coniuge separato e per i figli, le rivalutazioni monetarie, etc., bensì viene applicato l’indice relativo alla variazione MEDIA annuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
    Per capire meglio, due esempi:
    - In riferimento all’anno 2007 (prima dell’esplosione della crisi finanziaria mondiale) valevole per il 2008,
    solo sulla prima fascia (all’epoca pari a 5 volte il trattamento minimo) la rivalutazione applicata dell’ 1,7% è stata pari ad €.37,07 al mese, mentre utilizzando l’indice Istat dell’inflazione del 2,6%, il risultato sarebbe stato di €.56,70/mese, con una differenza di €.19,63 euro al mese, cioè la rivalutazione è stata di €. 255,19 all’anno in meno rispetto all’indice di inflazione (e parliamo solo della prima fascia).
    - In riferimento all’anno 2010, valevole per l’anno 2011, sempre solo sulla prima fascia (che da inizio 2011 è stata ridotta a 3 volte il trattamento minimo) la rivalutazione applicata dell’ 1,6% è stata pari ad €.22,13 al mese, mentre con l’indice Istat dell’ 1,9%, il risultato verrebbe €. 26,28 al mese, con una differenza di €.4,15 euro/mese, cioè la rivalutazione è stata di €. 53,95 all’anno in meno rispetto all’indice di inflazione (sempre solo sulla prima fascia).
    Perciò, sostenere che la rivalutazione delle pensioni (se ripristinata) copre totalmente l’inflazione è una monumentale menzogna (cosa peraltro non nuova, anzi è una costante utilizzata dai liberisti); non da oggi le pensioni sono condannate a perdere progressivamente nel tempo potere d’acquisto, anche per effetto dell’applicazione di un indice diverso e più basso di quello normalmente usato per calcolare l’inflazione; quindi la reintroduzione della rivalutazione delle pensioni utilizzando il meccanismo cos’ì com’è, contribuirà ad abbassare ulteriormente il potere d’acquisto delle pensioni.
    Viene spontanea una domanda: forse che GLI ANZIANI, COL PASSARE DEL TEMPO, SICCOME SONO PREDESTINATI ALLA FINE PIÙ O MENO PROSSIMA, HANNO MINORI NECESSITÀ DI TUTELA ECONOMICA RISPETTO AGLI ALTRI? Allora, perché non pensare di cambiare indice per rivalutare le pensioni, per un adeguamento non solo parziale o minimale al costo della vita?
    Per chi ha la memoria corta, basterebbe ricordare i tempi non tanto lontani in cui la rivalutazione delle pensioni era adeguata quasi integralmente all’aumento del costo della vita, attraverso un mix tra l’indice Istat dell’inflazione e la media degli aumenti contrattuali.
    Ora, in tempi di sobrietà, non si tratta di ritornare al passato, ma sarebbe certamente più adeguato alla realtà odierna utilizzare L’INDICE PER I BENI AD ALTA FREQUENZA D’ACQUISTO, considerando che i pensionati non sono di certo grandi ed ossessionati acquirenti dell’ultimo modello di telefono cellulare oppure del più recente computer. 

 

Aggiungo una riflessione: come mai si parla sempre e soltanto di costi dell’INPS, comprendendo sia le spese per previdenza ed anche quelle per assistenza? Eppure tale separazione era prevista fin dalla riforma “Dini” del 1995, ma non è mai stata (volutamente?) applicata. Perché gli oneri derivanti da ammortizzatori sociali (cassa integrazione, indennità di mobilità, disoccupazione, etc.), le pensioni sociali, l’integrazione al minimo, le invalidità, etc., sono “assistenza”, non previdenza. Quindi pretendere l’applicazione della separazione tra previdenza ed assistenza è fondamentale per evitare i soliti (ed interessati) inganni, che servono soltanto a depotenziare la previdenza pubblica per trarne il vantaggio di smantellarla, allo scopo di consegnarla al profitto privato (assicurazioni, banche, etc.), in nome dell’efficienza del mercato che, come dimostra l’esempio USA sulla sanità, è solo ideologia alimentata da interessi privati.

Inoltre, come mai sotto accusa ci sono sempre e solo delle pensioni dei lavoratori dipendenti privati? Mentre permangono tante “condizioni vantaggiose” (meglio chiamarle privilegi, spesso accuratamente nascosti) non soltanto per la “casta” e tanti altri nei fondi professionali (giornalisti, notai, etc.) ma anche all’interno dell’Inps (pubblico impiego, coltivatori, etc.); un esempio per tutti: il fondo previdenziale dei dirigenti delle imprese industriali sciolto a suo tempo dal governo Berlusconi e confluito nell’INPS, debiti compresi, finanziati parzialmente solo per i primi 2-3 anni, mentre per gli anni successivi, le compensazioni del debito dell’ex-Inpdai, senza dirlo, sono state addebitate ed addossate ad altri e lo saranno anche in futuro; quindi i contributi dei lavoratori dipendenti e dei precari (nei fondi a gestione separata) o i risparmi derivanti dal blocco della rivalutazione delle pensioni o dal suo ripristino che sarebbe (se rimanesse cos’ì com’è) comunque inferiore all’indice Istat, oppure dall’allungamento dell’età non solo per le donne, etc., provvederanno a pareggiare i deficit altrui ed i relativi conti.

In conclusione, un sistema previdenziale pubblico, come uno dei pilastri di un welfare universalistico, con le stesse norme per tutti (nessuno escluso), è ancora un obiettivo di realizzare compiutamente.

(Flavio Pellis – segretario generale AReS)

 

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