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Il sindacalismo teorizzato (estratto del volume “LAVORO, MERCATO, ISTITUZIONI - Scritti in onore di Gian Primo Cella”)

di Bruno Manghi

1.

La più che secolare vicenda del sindacalismo, pur modesta rispetto a fe- nomeni millenari di carattere religioso, politico, economico, è stata accom- pagnata da una varia fioritura di teorizzazioni. Soprattutto dovuta al fatto che esso è potentemente intrecciato allo svilupparsi di lotte e conflitti socia- li emotivamente avvertiti come pericolo o speranza nella società moderna. Proprio Gian Primo Cella in un suo lavoro classico ebbe a sottolineare la straordinaria documentazione statistica che accompagna fin dai primordi il fenomeno degli scioperi.

Il sindacalismo “pensato” o ripensato è composto di vissuti soggettivi, di narrazioni e di teorizzazioni. Il vissuto personale o di collettività vive di tradizioni orali ed è talvolta registrato in analisi sociologiche o microstorie. Prende rilievo quando è assunto o frainteso in più sistematiche narrazioni che lo utilizzano nel racconto degli avvenimenti.

In realtà le narrazioni più diffuse insistono sullo sviluppo dei conflitti sociali e sulle loro implicazioni politiche, mentre la storia propria del fe- nomeno sindacale è piuttosto secondaria e dedicata al mondo degli speciali- sti. Viceversa le teorizzazioni, siano esse interpretazioni, profezie o siste- mazioni razionali, hanno avuto un rilievo pratico evidente.

Esse infatti influenzano le convinzioni e i comportamenti del ceto sin- dacale e delle schiere dei militanti o attivisti, rafforzando quelle culture di lunga durata che segnano, come descritto magistralmente da Gian Primo Cella, le diverse mentalità del sindacalismo d’occidente.

Ripercorrendo il ruolo delle teorizzazioni si ha l’impressione quasi co- stante che esse nella loro primitiva formulazione “scoprono” qualcosa di inedito e danno vigore all’esperienza, mentre una volta consolidate sem- brano svolgere un’opera di impoverimento, distaccandosi dal contesto umano di una vicenda che invece va riscattato dalla narrazione o dalle in- dagini sul vissuto.

I cicli teorici rafforzano l’evoluzione positiva del sindacalismo per con- gelarsi presto o tardi in schemi rituali, in razionalizzazioni spesso accade- miche o ideologiche, che mortificano i dilemmi reali dell’azione sindacale.

 

2.

Nella seconda metà dell’Ottocento prendono vita le grandi teorizzazioni destinate ad incidere con forza sull’esperienza sindacale. Sono quelle che si sviluppano in ambiente socialista, sia riformista sia rivoluzionario, nel cri- stianesimo sociale e in parte nel movimento anarchico.

La missione del sindacalismo viene in larga misura “dedotta” da un quadro di riferimento più ampio. Il fenomeno sindacale svolge un ruolo importante ma in qualche modo “ancillare” al servizio di fini globali, spes- so della creazione di un nuovo ordine sociale.

Esso è necessario, un’utile scuola, un sintomo che va inquadrato, talvol- ta moderato (nel caso del cristianesimo sociale), subordinato a compiti e istituzioni che sono ben al di là del conflitto endemico tra lavoratori e capi- talisti. Le deviazioni sono condannate come l’unionismo da Gramsci e, ben più tragicamente l’Opposizione Operaia in URSS. Le Chiese, nei loro ver- tici, non si spingono molto oltre la comprensione e la tolleranza.

Quanto al primo anarchismo, esso è più attratto dal mutuo aiuto, dai germi di una nuova fraternità. Tuttavia Guido Baglioni e chi scrive, nel considerare i limiti del deduttivismo non hanno colto la dimensione storica di quel modo di pensare. Il nesso tra sindacalismo e visioni generali di na- tura ideale e politica è un passaggio necessario, una fonte di legittimazione. Ciò valeva in Occidente e vale nei decenni recenti per comprendere i primi passi delle esperienze sindacali di mondi altri, dall’Asia all’Africa all’America Latina.

Certo, quando l’esperienza si consolida quei quadri teorici diventano gabbie mortificanti ma all’origine hanno rafforzato le convinzioni e l’impegno dei costruttori. Erano i tempi in cui le lotte per il diritto di scio- pero si affiancavano a quelle per il suffragio universale, nel segno dell’emancipazione.

3.

Il primo novecento vede l’affermazione di teorie distantissime tra loro per ispirazione ma concordi nell’affidare ai sindacati un ruolo autonomo e centrale. Anzitutto la corrente sorelliana destinata ad alimentare la non bre- ve stagione del sindacalismo rivoluzionario.

È dai sindacati che deve rinascere un’autentica affermazione del sociali- smo, sono il conflitto, lo sciopero generale, la violenza stessa a proporre la rigenerazione sociale. I racconti di Jack London sono quelli che rendono plasticamente il possibile appuntamento del movimento con la storia.

Inutile dire come queste intuizioni talvolta folgoranti finiscono col tra- sfigurare la vicenda sindacale. L’attesa dell’episodio decisivo mette in se- condo piano il cammino organizzativo e umano dell’esperienza. Esperienza che invece trova efficaci teorizzazioni nel riformismo maturo della Società Umanitaria e di Gnocchi Viani in parte dell’austro marxismo e nel primo novecento tedesco.

Un altro fondamentale tentativo di considerare i sindacati come pilastri nella costruzione di un nuovo ordine sociale appartiene alla tradizione Fa- biana e soprattutto all’elaborazione di Sidney e Beatrice Webb. In concreto la teorizzazione di una sorta di corporativismo democratico ha rafforzato nell’unionismo britannico la consapevolezza di un compito assai più che contrattuale; è stato però il laburismo politico ad imporsi sulla scena, con- fermando il primato della democrazia parlamentare.

I fasti del corporativismo teorizzato dovevano viceversa attuarsi nel re- gime autoritario come alternativa al parlamentarismo liberale. Il sogno cor- porativo ai suoi primordi ha esercitato un certo fascino negli ambienti più diversi, a partire da quelli cattolici (Mounier, Fanfani, ecc.) spronati dall’enciclica Quadragesimo Anno. L’esito, com’è noto, anziché portare ad una corporativizzazione dello stato, ha prodotto una statalizzazione delle corporazioni.

4.

Dagli anni venti del dopoguerra comincia ad imporsi la voce dell’America. Il vigore del sindacalismo strettamente intrecciato con il mo- vimento per i diritti civili, il confronto crudo e diretto tra capitale e lavoro ben colto in Italia da Ferrarotti e successivamente in modo audace da Mario Tronti, le correnti del volontarismo e degli istituzionalisti, concorrono nell’attribuire all’unionismo USA, un ruolo originale e affascinante.

I pensatori che principalmente segnano il suo imporsi sulla scena inter- nazionale, dal Perlman a Tannenbaun, intendono affrancare l’esperienza sindacale dagli schemi della sinistra tradizionale europea, segnatamente dalle interpretazioni marxiane, vedendovi piuttosto un vasto movimento umano che resiste e intende correggere un capitalismo aggressivo e senza scrupoli.

Il lavoro operaio si mobilita e si organizza a partire da istinti-base in una costante sfida per la sicurezza. Tale “statuto” fondamentale fa si che il mo- vimento riesca a comporre in una elementare solidarietà comunitaria la varietà impressionante di culture, etnie, ascendenze politiche e religiose, ca- ratteristica del nuovo mondo. Queste teorizzazioni efficacissime nel libera- re dagli schemi ideologici del vecchio mondo (ma non dimentichiamo l’eccezione inglese) finiscono tuttavia per cristallizzarsi in un’epica troppo elementare, mentre invece l’unionismo nord americano andrà ben oltre, tentando di costruire un vero e proprio sistema di relazioni.

5.

Nel dopoguerra e fino agli inizi degli anni settanta una grande influenza viene esercitata dagli studiosi delle scienze sociali. Sono impressionati dal- la fase di piena affermazione del lavoro industriale, specie di quello ospita- to negli immensi falansteri del fordismo. È la stagione che vede imporsi la sociologia moderna del lavoro, dalle affascinanti “rivelazioni” di Friedman a un lungo ciclo di ricerche empiriche ricche di intenzioni interpretative come nel caso del primo Touraine, ma si spingono talvolta a scandagliare anche mondi del lavoro non operai (Crozier, Wright Mills).

In questa linea di pensiero il fenomeno sindacale emana dalle sottostanti culture, dalle situazioni organizzative, dalla complessa evoluzione delle tecnologie. Il lascito principale sta nel rafforzare nella coscienza dei sinda- calisti le crucialità di grandi problematiche come le trasformazioni del capi- talismo industriale e l’organizzazione del lavoro umano: di qui una fase di conflitti ed anche di successi relativi all’umanizzazione del lavoro stesso.

Semmai il limite di questa felice stagione sta nel legare eccessivamente il fatto sindacale alle caratteristiche professionali dei rappresentati.

I movimenti di fine anni settanta dimostreranno che altri fattori entrano in gioco esaltando la soggettività delle associazioni sindacali e dei loro gruppi dirigenti.

6.

Impossibile trascurare la significativa impresa teorica rappresentata dall’elaborazione di Mario Romani dei primi anni cinquanta, destinata a da- re un respiro di lunga durata alla nascita della Cisl e al coraggio lungimi- rante di pastore e degli altri padri fondatori.

Le fonti ispiratrici di quel quadro teorico stanno nell’inusitata apertura alle scienze sociali internazionali, nella consapevolezza di quanto fosse fe- condo e adatto ai tempi il modello unionista anglosassone e un richiamo profondo ma non “chiesastico” ai valori dell’umanesimo cristiano. Sono stati indagati ovviamente i limiti di una visione talvolta tradotta in “dottrina” , in particolare l’aspettativa di uno sviluppo capitalistico assai più ar- monioso e lineare di quanto si sarebbe poi rivelato.

Ciò non sminuisce la straordinaria innovazione che essa rappresentò sul- la scena domestica italiana. Innovazione che con il tempo non mancò di trovare importanti consonanze in altre sponde sindacali; basti pensare all’originalità di Bruno Trentin, al paziente lavoro di Aris Accornero, fin dal tempo di Novella, agli impulsi preveggenti di Ferrarotti.

7.

Poi venne il tempo delle “relazioni industriali”. Prima di ridursi ad una branca piuttosto noiosa e ripetitiva del sapere accademico, le teorie delle relazioni  industriali  hanno  vigorosamente  accompagnato  in  tutto l’occidente la definitiva legittimazione dei sindacati come attori sociali ri- conosciuti nel concerto di società pluralistiche. Il negoziato è bene altro di un evento che chiude questo o quel conflitto. Dà luogo a un sistema di rap- porti collettivi, entra stabilmente nella vita di un’impresa. Ciò esalta la componente professionale dell’attività sindacale così come le direzioni del personale occupano un ruolo cruciale nelle strategie d’impresa e dell’intera economia.

La delicatezza e l’importanza di un negoziato fisiologico e costante pongono al sindacato, a più riprese, la questione delle rappresentanze, della difficile armonizzazione tra l’attività delle pur necessarie burocrazie sinda- cali e le istanze dei rappresentati in nome dei quali si negozia. A partire da- gli anni ottanta lo spazio delle relazioni industriali risulta però insufficiente a fronteggiare crisi e turbolenze sociali ed economiche, le derive inflazioni- stiche, i sommovimenti nel mercato del lavoro.

Gli stati nazionali sono chiamati in causa, i sindacati compensano le dif- ficoltà di efficaci soluzioni salariali con il proporsi sul terreno del Welfare e delle politiche macroeconomiche. Questo processo fa la fortuna delle teorie neo-corporative, chiama a raccolta le migliori energie degli economisti del lavoro (Tarantelli) cerca di mettere al riparo uno sviluppo insidiato da gravi episodi potenzialmente recessivi. Sarà l’anomalo primato del capitale fi- nanziario a chiudere un ciclo teorico e pratico, non privo di grandi successi.

Nel frattempo sulla base di episodi importantissimi e di accordi d’emergenza (Olanda, Germania unificata, Italia 1992) si insedia una sin- golare ideologia, quella della concertazione. L’illusione è quella di trasfor- mare la soluzione di emergenza in un sistema di relazioni trilaterale, pro- prio quando invece le mutazioni del lavoro riducono le rappresentatività del Sindacato e rendono meno plausibile la sua aspirazione, salvo nei casi di effettivo collasso delle rappresentanze politiche.

8.

Giusto dopo il culmine del protagonismo dei movimenti del lavoro, fan- no una rapida incursione teorizzazioni di carattere politologico. È il periodo durante il quale il sindacalismo rivendica per sé il ruolo di soggetto politi- co. Per certi aspetti questa pretesa, confortata da picchi di adesione senza precedenti, è lo sviluppo estremo della rivendicazione di autonomia.

Le sue conclusioni sono del tutto incerte: non si capisce se si preconizzi qualche forma di neo-laburismo oppure una contesa permanente con le tra- dizionali forze politiche per assicurarsi il primato nei rapporti con le istitu- zioni. Ad esse si contrappongono le teorizzazioni sulla “autonomia del poli- tico”, in guerra contro l’asservimento della sfera propriamente politica alle coalizioni e agli interessi sociali. Un tardivo ricorso ai grandi classici dell’arte politica.

Il declino dei poteri sindacali, il blocco dei cicli rivendicatici, chiudono rapidamente questa vicenda ideologica che tuttavia si trascina per qualche anno nel caso italiano.

9.

Lungo alcuni decenni e segnatamente sulla scena domestica, si impone anche per i suoi effetti pratici una variante delle teorie delle relazioni sinda- cali, il giuslavorismo. Animato da un gruppo di giuristi di grande valore, il giuslavorismo opera per consolidare diritti sindacali e diritti individuali dei lavoratori nella modernizzazione italiana. È l’anima di scelte riformatrici tese a considerare il sindacalismo come strumento determinante nella diffu- sione della cittadinanza sociale. L’opera è complessa poiché deve mediare tra due culture entrambe presenti ne movimento e nelle rivendicazioni. Una rivendica l’autosufficienza dei rapporti collettivi, una produzione di regole che emergono naturalmente dal gioco delle parti. L’altra ritiene indispensa- bile un intervento legislativo, una regolazione sia pur non invadente da par- te delle istituzioni.

Temi complessi che vanno dal diritto allo sciopero, alla validità uni- versale dei risultati contrattuali, alla questione delle rappresentanze. Fino agli anni ottanta il grande giuslavorismo accompagna con successo e suf- ficiente equilibrio l’evoluzione dell’esperienza collettiva. Poi subentra un’involuzione ben presente ai giorni nostri: il contenzioso giuridico, il ri- corso a giudici e avvocati sostituisce il confronto diretto tra le parti. La mi- scela deprimente tra giuslavoristi di terza generazione e giornalismo televi- sivo genera l’illusione di poter regolare problemi sociali di cui si è persa ormai la nozione.

Consulenti giuridici avventurosi tracciano strategie aziendali spericola- te. Giuslavoristi protagonisti difendono un edificio di tutele a cui è ormai estranea oltre la metà dei lavoratori italiani. Il surplus di una mentalità av- vocatesca peraltro diffusa in altri settori della vita italiana giova assai poco alla cultura imprenditoriale e sindacale, dilagano equivoci concettuali come la confusione tra tutela e diritti o sull’altra sponda tra flessibilità e precarie- tà. Naturalmente non è in questione il valore degli studiosi. Semplicemente il grande giuslavorismo aveva agito felicemente in un ciclo storico di espansione del valore-lavoro, il giuslavorismo successivo si muove in un tempo che ha visto la netta e costante riduzione del benessere legato al lavoro.

10.

Già nel corso degli anni cinquanta si erano affacciate tesi relative al su- peramento dell’esperienza sindacale. Si pensava che le imprese potessero autonomamente assicurarsi il consenso e la collaborazione dei dipendenti. Le cose non andarono in tal senso. Oggi è inevitabile che si riaffaccino teo- rie centrate sulle difficoltà del sindacato, sulla riduzione della sua influen- za. Vengono chiamate in causa la globalizzazione, il primato del capitale finanziario, la dispersione del lavoro in forme difficilmente organizzabili. Ne consegue il fatto che il sindacato perde la sua tradizionale posizione di quasi monopolista nell’assicurare la tutela del lavoro. Una linea di pensiero che non preconizza la fine dei sindacati, ma semplicemente un loro radicale ridimensionamento. Resta tuttavia da spiegare come in occidente, ma anche altrove, i sindacati restano tra le esperienze associative che più attraggono libere adesioni, come continuino ad assicurarsi un volume notevole di pre- stazioni volontarie, come la stessa delusione che li circonda muova da grandi attese.

Il deficit certo è che la dislocazione nazionale dei poteri sindacali lascia scoperto quell’orizzonte internazionale se non planetario che pare quello decisivo per efficaci tutele del lavoro.

11.

In questo affrettato ricordo di ricerche intellettuali dedicate al sindacato, il rapido esaurimento della capacità interpretativa delle teorizzazioni e an- che della loro influenza sui nodi vitali del sindacalismo, testimonia come esso non venga così facilmente ingabbiato. Alla fine gli avvenimenti e la loro narrazione riprendono il primato.

 

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