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Monti candidato: risoluto o insicuro?

27/12/12 - Pierre Carniti

Lo scioglimento delle Camere e la convocazione delle elezioni hanno accresciuto il tasso di confusione e di nervosismo che abitualmente domina la politica italiana. Anche Monti, nella sua lunga conferenza stampa di commiato, domenica 23 dicembre, si è buttato nella mischia. Non senza ambiguità. Che per altro sono il tratto tipico della politica italica. E così tra un: “mi candido senza candidarmi”, un “ci sono, ma non ci sono” si è avuto l’impressione di avere di fronte un insicuro che si paragonava a De Gasperi pensando però di essere il nuovo Cavour. Insomma se si debbono prendere per buone le sue dichiarazioni, ascoltate nella maratona televisiva nella quale gareggiava con il Cavaliere, potremmo definirlo  un candidato riluttante, sdegnoso, recalcitrante. Ma tutt’altro che indisponibile. Tant’è che solo tre giorni dopo non ha esitato a proclamare: “Saliamo in politica per rinnovarla”. Formula che non si sa bene cosa significhi. Ma che in concreto potrebbe preludere ad una candidatura a premier per conto di una coalizione. Oppure potrebbe trattarsi di una semplice strizzata d’occhio agli “ottimati”

 

Comunque, nel quadro di incertezze che restano incombenti, ci sono cose che incominciano ad essere un po’ più chiare. La prima consiste nella rottura (insanabile e definitiva) con il berlusconismo. Verso il quale il premier dimissionario ha manifestato il proprio “sbigottimento”, a causa dell’irrefrenabile schizofrenia del Cavaliere. Non è un caso, del resto, che nel giro di sole ventiquattro ore quest’ultimo abbia prima sfiduciato il  governo, ritenuto responsabile di ogni nefandezza, e subito dopo abbia invece  proposto l’ex rettore della Bocconi come  “federatore e candidato premier della la coalizione dei Moderati”.

Sentire Berlusconi parlare a nome dei moderati non può che suscitare ilarità. Considerato che i moderati della sua scuderia sarebbero, tra gli altri, personaggi come: Storace, Calderoli, Santanché, Dell’Utri,  Biancofiore. O anche lo stesso Berlusconi. Che, come noto, di moderato non conosce nemmeno l’uso del Viagra. Ma impiego di terminologia inappropriata a parte, c’è da supporre che la divergenza principale, la rottura  irreversibile di Monti con il PDL, sia motivata dalla deriva demagogica e populistica di questo partito. Che, malgrado l’adesione al PPE (dove però c’è di tutto, dai popolari ai populisti, dai liberali ai reazionari) non ha nulla a che fare con la destra liberale ed europea. Destra liberale che, al contrario, è il riferimento politico e culturale del professore.

Si dirà: bella scoperta! E ci sono voluti vent’anni per rendersi conto che Berlusconi era  ed è un cialtrone, un millantatore, un demagogo? Per la verità era tutto chiaro già nel 1994. Dall’establishment, e dalla maggior parte dell’elites economico-finanziaria Berlusconi era infatti giudicato un outsider che “scendeva in campo” essenzialmente per proteggere ed allargare i suoi affari. D’altra parte, conoscendo la sua biografia, non potevano esserci assolutamente dubbi che si trattasse di un bugiardo, un falso, un simulatore. Per di più con irrefrenabili costumi libertini, donnaioli. Tuttavia, malgrado queste sue peculiari note caratteristiche, buona parte della cosiddetta “Classe dirigente” ed  anche del Clero lo hanno sostenuto. Perché l’hanno fatto?

Sicuramente non tutti sono stati spinti dalla stessa motivazione. Tra le tante spiegazioni, certamente ha avuto un peso la mancanza di un altro candidato di destra più autorevole, ma anche in grado di mantenere e proteggere credibilmente l’ordine sociale esistente. Poi ha evidentemente giocato la proprietà di tre reti televisive e di alcuni giornali, compresa la sua capacità di saperli utilizzare. Nessuno è mai stato giudicato capace di raccontare frottole altrettanto bene quanto lui. Infine l’ha favorito la propensione all’uso spregiudicato del potere. Utilizzato indifferentemente per assicurare prebende, benefici, congrue e per tacitare: clientes, propinques, sacerdotes. Soprattutto puelles. Non a caso la rappresentanza parlamentare femminile del PDL è stata selezionata tenendo principalmente presente le doti estetiche delle aspiranti.

Con la “salita in campo” di Monti questo ciclo è finito. Non importa se alle imminenti elezioni al suono di una tromba e presentandosi su un carro dorato il ciarlatano “dottor Dulcamara di Arcore” riuscirà nuovamente a farsi credere taumaturgo da numerosi Nemorino desiderosi di acquistare il suo “Elisir d’amore”. E dunque riuscirà a prendere più voti (il che è tutt’altro che improbabile) dei seguaci “dell’agenda Monti”. In ogni caso, il fatto importante è che sulla scena politica italiana incomincia finalmente ad affacciarsi una destra liberale ed internazionalmente presentabile (cosa importante nell’era della globalizzazione) che renderà finalmente possibile anche da noi, come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, una dialettica bipolare. Che non significa bipartitica. Qualcuno dovrebbe spiegare anche a Casini che, ad esempio, il sistema politico tedesco, pur non essendo bipartitico, è tuttavia bipolare.

Ora, perché questo sviluppo si possa verificare anche in Italia è necessario che ad una sinistra socialdemocratica, laburista, democratica, si contrapponga una destra liberale, popolare, repubblicana. Che fin’ora non si è mai vista. Bene quindi la formazione di un raggruppamento politico montiano. Anche se, per ora, è difficile capire la consistenza della compagine politica che fa riferimento al premier dimissionario e, suo tramite, alla destra liberale europea. O invece quanto essa si riduca semplicemente ad una zattera per naufraghi. Per altro, stando alle cronache, sembra che proprio per scongiurare questo pericolo, sia particolarmente impegnato ed attivo in un’opera di reclutamento di esponenti della cosiddetta “società civile” il ministro dell’industria e delle politiche di Sviluppo economico: Passera. Il che, sia detto per inciso, spiegherebbe la sua assoluta evanescenza rispetto  alle situazioni di crisi produttive aziendali (ben 300 quelle che giacciono inutilmente sulla sua scrivania). Per non parlare dello politiche di sviluppo che sono rimaste totalmente fuori del suo orizzonte. Come, del resto, di quello dell’intero Governo.

Apro una brevissima parentesi per dire che mentre capisco e condivido lo “sbigottimento” di Monti per le quotidiane manifestazioni di schizofrenia di Berlusconi, sono personalmente “stupefatto” per i riferimenti salvifici, suoi e della maggior parte dei suoi sodali, alla “società civile”. Contrapposta alla “società politica”. Vorrei rammentare che anche le riunioni di condominio, o quello che avviene durante ed ai margini delle partite di calcio sono espressioni della “società civile”. Così come vorrei rispettosamente ricordare al cardinal Bagnasco che anche la folla, alla quale si è rivolto Ponzio Pilato perché scegliesse tra Gesù e Barabba ed ha scelto Barabba era “società civile”. Insomma prima ci liberiamo della retorica della società civile e prima riusciremo a non farci distrarre dai problemi veri a cui  la politica dovrebbe dare una risposta.

A questo scopo può  essere utile l’agenda Monti? In una qualche misura si. C’è da dire ovviamente che considerata la lunghezza (25 pagine) alcune sono un puro esercizio di letteratura politica. Altre richiamano invece punti e propositi largamente condivisi e condivisibili. Le restanti sono, al contrario, indicative della dottrina Monti e della sua visione politica-sociale. In effetti, come rappresentante della borghesia agiata, benestante (1 milione e 700 mila euro la sua ultima denuncia dei redditi) l’ex  premier spiega, con la sua Agenda, le ragioni per cui considera necessaria: una redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, l’austerità dei bilanci pubblici, malgrado l’economia in recessione, il lavoro flessibile in una società rigida.

Anche se l’Agenda non è stata materialmente tutta scritta solo da Monti, le cronache informano infatti di altri apporti, la parte relativa alle questioni economiche e del lavoro lascia a dir poco perplessi. Senza stare a farla lunga, a me personalmente sarebbe, ad esempio, piaciuto capire perché sul piano economico ed ai fini della ripresa sia più utile confermare la spesa per l’acquisto (all’estero) dei cacciabombardieri, oppure lo sperpero di qualche milione di euro per la inutile progettazione del ponte sullo stretto di Messina, o di qualche miliardo per la costruzione della Torino-Lione, invece di destinare quelle risorse, o parte di esse, alla spesa diffusa per la messa in sicurezza delle scuole, o del territorio. Considerato che oltre il 60 per cento delle scuole è a rischio e che il territorio, anche per la gestione di malaffare che è stata consentita per decenni, è in pericolo ogni volta che  si verifica una pioggia appena superiore alla norma.

Del resto, come il premier dimissionario sa bene, la più grave crisi del secolo scorso (quella del 1929, per intenderci) è stata superata sul piano economico con la politica keinesiana  (che suggeriva, in assenza di idee più  luminose da parte dei politici, di creare lavoro magari facendo scavare delle buche e poi riempirle) e sul piano politico-sociale, anche ai fini di sostenere la domanda, con la creazione e l’estensione dello Stato Sociale. Non si può certo escludere che possano essere escogitate idee anticrisi più moderne ed innovative. Quel che è certo è che, se esistono, esse non si trovano certo nel testo di Monti.

Lo stesso discorso vale a proposito del sistema di relazioni industriali che il capo del governo dimissionario dice di volere cooperativo e stabile. Senza tuttavia nascondere la propria attrazione ed il proprio apprezzamento verso il “paradigma Marchionne”. Che, come noto, alla partecipazione ritiene più conveniente opporre la divisione. Per altro, che in materia il Professore abbia idee discutibili si era già dedotto da alcuni suoi interventi precedenti. Così come dalle  più recenti sortite. Sortite nelle quali non è quasi mai mancato il suo apprezzamento e l’inchino retorico al sistema di relazioni industriali realizzato nei paesi del Nord Europa. Del quale però, e mi duole dirlo, dimostra di non sapere molto. Sia in ordine alle lotte durissime (di intensità sconosciuta, tanto negli Usa che in Europa) che hanno favorito la sua genesi. Come dei fattori e delle valutazioni che hanno poi convinto le parti sociali alla sua stabilizzazione. Per questo, qualora fosse interessato a sapere come sono veramente andate le cose, mi permetto di segnalargli, per il caso danese, il testo di  Madsen nel papers n. 53 dell’International Labour Office di Ginevra. Mentre per capire il modello svedese si può avvalere del lavoro di S. Nycander. Il cui testo è disponibile sul sito della Fondazione Pastore tra i materiali del seminario del marzo 2011.

Nell’Agenda montiana poi del tutto evanescente è il tema del lavoro. Che invece, sia dal punto di vista sociale che politico, dovrebbe essere considerato la questione cruciale. In proposito, a parte la tendenza ad esaltare l’accordo “sulla produttività” dell’ottobre scorso (che con la produttività non c’entra nulla, per la buona ragione che il suo scopo è semplicemente quello di svuotare il contratto nazionale a beneficio del contratto aziendale) l’insieme delle indicazioni in materia di lavoro, direttamente od indirettamente contenute nell’Agenda, fa venire alla mente il dialogo tra Geronte e Sganarello nel“Medico per forza” di Moliere. In particolare là dove Geronte dice a Sganarello: “Mi sembra che li mettete in posti diversi da dove sono: secondo me il cuore è a sinistra ed il fegato a destra”. Al che Sganarello risponde: “Si  una volta era così, ma noi abbiamo cambiato tutto questo”.

Che forse non è l’ultima delle spiegazioni per capire come mai perché, mentre a parole si auspica un aumento del lavoro,  ciò che cresce è invece soprattutto la disoccupazione.

In questo quadro incerto ed eclettico ci può dunque stare anche un Monti che “sale in politica per rinnovarla”. Anche se non è chiaro cosa concretamente significhi. Un Monti, contemporaneamente tracotante ed arrendevole. Che dice e non dice.  Che si nega, ma allo stesso tempo si dichiara disponibile. D’altra parte, nella politica italiana che ha visto di tutto, non c’è alcun motivo per stupirsi di niente. Incluso il fatto che il testo del professore non sia affatto un esempio dimostrativo del massimo della chiarezza che può essere conseguita dalla prosa politica. Del resto, non è la prima volta e non sarà probabilmente nemmeno l’ultima che un memorandum viene scritto, più che per informare chi legge, per oscurare le opinioni di chi scrive.

 

  

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